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15/09/2008
DAVID FOSTER WALLACE: LO SCRITTORE FRAGILE DELL'IRONIA E DELL'ANGOSCIA
LA REPUBBLICA
/ DAVID FOSTER WALLACE: LO SCRITTORE FRAGILE DELL'IRONIA E DELL'ANGOSCIA
David Foster Wallace si è tolto la vita impiccandosi nella sua casa di Claremont, in California. Ne ha scoperto il cadavere la bellissima moglie Karen, che ha chiamato inutilmente i soccorsi e poi la polizia. Allo sconcerto del mondo letterario si è aggiunto lo sgomento degli ammiratori, ed al dolore degli amici, quello dei lettori di ogni parte del mondo, che si sono identificati sin dai primi scritti con il suo stile inimitabile e rivoluzionario, e, in particolare, con il suo sguardo originalissimo sul mondo. Aveva compiuto quarantasei anni a febbraio, e specie negli ultimi tempi, aveva dato a tutti gli amici l’impressione di essersi liberato dai demoni che lo tormentavano sin da quando era bambino, ed aver trovato la serenità, se non addirittura la felicità con la moglie, che chiamava con il nome e cognome: Karen Green. Non si trattava di un vezzo, ma di un elemento rivelatorio del carattere e del suo sguardo sull’esistenza: in quel modo di rivolgersi per esteso alla donna che amava, c’era certamente un misto di ironia ed affetto, ma soprattutto l’esigenza di comprendere e definire con precisione ogni elemento dell’esistenza, anche il più intimo. Quando venne ospite delle “Conversazioni” a Capri cercai di farlo parlare del suo approccio letterario «postmoderno». Mi spiegò con lucidità e candore che non aveva mai capito cosa significasse quel termine, ma poi, dialogando in pubblico in assoluto stile postmoderno, mescolò quello che gli americani chiamano «highbrow» con il «lowbrow», la cultura alta con quella popolare, improvvisando lunghissime divagazioni su quello che lo aveva colpito maggiormente da quando era arrivato nel nostro paese. Il suo modo di parlare, coinvolgente e ironico, non era differente dallo stile di scrittura, fatto di periodi lunghi anche un’intera pagina intervallati da brevi affermazioni fulminanti, e commentati entrambi da sterminate note a pie’ di pagina. La sera della conversazione caprese catturò un’enorme cavalletta che aveva fatto fuggire inorriditi gli altri scrittori e la regalò alla sua Karen, invitandola ad ammirare la meraviglia della natura. Era l’estate dei mondiali di calcio, e durante il festival si appassionò a quello sport che non conosceva ed in particolare alle partite dell’Italia, che cominciò ad analizzare con il consueto approccio a metà tra lo scientifico ed il creativo: la cosa che lo colpì di più fu il gesto del «ciucciotto» di Totti dopo il rigore contro l’Australia. Voleva sapere cosa significasse, se il giocatore si stesse rivolgendo alla moglie o al mondo intero, se era davvero un fuoriclasse o un mezzo campione. Esultava insieme a noi per le vittorie dell’Italia, ma non osava azzardare commenti tecnici, ribadendo un altro elemento fondamentale del suo modo di essere: era estremamente umile, ed evitava di parlare di cose che non aveva studiato a fondo. Appariva addirittura spaventato quando scopriva di essere considerato un maestro, e che il suo modo di scrivere lontano da ogni canone classico aveva influenzato un’intera generazione di giovani scrittori, cosi’ come gli allievi dell’Università di Ponoma, che oggi invadono Internet con affranti messaggi di lutto. Era un uomo molto gentile, timido, e sorprendentemente formale. Fin quando non diventava intimo del suo interlocutore, usava l’appellativo «Mister», e questo approccio così signorile, e per nulla ironico, smentiva l’imponenza del corpo da ex campione di tennis, il modo di vestire sciatto e perennemente con la bandana, la barba non coltivata, ed il rozzo tatuaggio sull’avambraccio. Aveva un’amicizia autentica, ma intrisa di rivalità con Jonathan Franzen: durante «Le Conversazioni» si divertirono a farsi domande a vicenda, per mettersi in difficoltà. Le schermaglie continuavano persino in giochi di memoria e di società. Ma l’ammirazione nei confronti di Franzen era sincera, come per molti altri scrittori della sua generazione, come Jeffrey Eugenides, Rick Moody, Zadie Smith e Nathan Englander. Ammirazione assolutamente ricambiata: il suo sterminato romanzo Infinite Jest (in Italia pubblicato da Fandango e poi da Einaudi) era unanimemente riconosciuto come un punto di riferimento imprescindibile della letteratura contemporanea, così come i saggi e i racconti, tra i quali svettano Brevi interviste a uomini schifosi (Einaudi) e Ragazza con i capelli strani (minimum fax), sempre caratterizzati in egual misura dall’ironia e l’angoscia. Era in grado di scrivere con la stessa competenza di Kafka e di Agassi, di David Lynch e di John McCain, al quale dedicò un saggio memorabile in occasione della sua prima campagna elettorale, quando il senatore dell’Arizona venne sconfitto da Bush grazie al devastante operato di diffamazione da parte di Karl Rowe. A rileggerlo oggi, il saggio sorprende per la lucidità con cui descrive il carattere impulsivo dell’attuale candidato alla presidenza, per la mancanza assoluta di faziosità ideologica, e l’ammirevole distacco con cui riesce a raccontarne le strategie, il talento ed i limiti. Era molto affascinato dai meccanismi della politica, e tra i suoi scritti più folgoranti rimane il racconto Lyndon che vede per protagonista un giovane omosessuale che viene assunto come assistente da Lyndon Johnson all’epoca in cui il presidente era ancora un potente senatore texano. Anche in quel caso era interessato a raccontare l’umanità dei protagonisti, che risultavano, sotto le sembianze imponenti e la voce stentorea, molto umani e terribilmente fragili. Si trattava, con ogni probabilità di un modo per raccontare se stesso e le proprie angosce più intime. Negli ultimi tempi, e negli ultimi saggi che ha scritto, sembrava alla ricerca di ideali di perfezione che lo potessero riconciliare con il fatto stesso di esistere e di dover affrontare la quotidianità. Individuava questi ideali negli elementi più inaspettati, come ad esempio nella elegante perfezione del rovescio di Federer, o nella ricchezza della cucina napoletana: dopo una cena da Mimì alla Ferrovia era diventato golosissimo delle mozzarelle di bufala e dei polipi, che non aveva mai mangiato prima del suo viaggio italiano. Ma questi autentici momenti di serenità, che lo portavano a distendersi in un sorriso coinvolgente, finivano per essere sopraffatti dai suoi demoni, che lo portarono a sbandare e a drogarsi in gioventù: finiva perennemente per scoprire l’ingiustizia ed il lato doloroso dell’esistenza, che gli appariva raggelante, violenta e assurda. Nei momenti più sereni riusciva ad esorcizzare questa scoperta con la solita ironia: Una cosa divertente che non farò mai più è un racconto esilarante su una crociera organizzata ai Caraibi, e lo stesso approccio è evidente in Tracy Austin mi ha spezzato il cuore, dedicato ad una campionessa del suo sport preferito. Tuttavia, molto più spesso, riaffiorava uno sguardo sgomento sulla quotidianità dei comportamenti umani: nel saggio che dà il titolo alla sua ultima raccolta, Considera l’aragosta (Einaudi), racconta il modo atroce con cui muoiono i crostacei per soddisfare le nostre esigenze gastronomiche. Nel giro di poche righe l’ironia cede il passo al solito approccio distaccato e scientifico, ma poi, irrefrenabilmente, allo sconcerto. Ed è ancora più raggelante rileggere oggi nella raccolta Oblio (Einaudi) uno dei racconti più forti e dolenti, intitolato Good Old Neon, nel quale compare in prima persona come Dave Wallace e racconta il suicidio di un suo studente. Il racconto è narrato in prima persona dal suicida che confida al lettore il segno di totale una disfatta esistenziale: «La mia intera esistenza è stata una frode. Non sto esagerando. Molto di quello che ho fatto in ogni momento è stato il tentativo di creare una certa impressone di me negli altri. Per lo più per essere apprezzato o ammirato». David Foster Fallace era tutt’altro che una frode e chi lo ha conosciuto sa che la sua strabordante generosità era sincera, e rappresentava l’opposto di un atteggiamento vanitoso. Oggi sappiamo che dietro la timidezza dello sguardo, l’umiltà del confronto dialettico e la lettura illuminante degli avvenimenti più disparati, provava un enorme dolore al quale non ha saputo resistere. Tutti noi che ne sentiamo la mancanza lo ricordiamo con il titolo di uno dei suoi ultimi, bellissimi racconti: La morte non è la fine. ANTONIO MONDA
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