contact follow us
  contact
08/06/2014
PAOLO SORRENTINO: "D'AVANZO E LE LACRIME DEI POTENTI"
PAOLO SORRENTINO: "D'AVANZO E LE LACRIME DEI POTENTI"
da Repubblica.it
leggi su Repubblica.it

Il primo paragrafo che ho scritto è brevissimo. Si chiama Napoli. Di Napoli, la città dove siamo nati, cresciuti e ci siamo formati, con D'Avanzo ne parlavamo pochissimo. Se ne parlavamo, lo facevamo o con ironica nostalgia e attraverso l'aneddotica oppure con un piglio grave e distaccato, da entomologi un po' approssimativi. Non penso che se ne sia mai parlato in maniera schietta e profonda. E la ragione è molto semplice. Napoli, come tutti i luoghi in cui si è cresciuti, rimandava a quel tempo della vita in cui si è stati romantici, sprovveduti e rudimentali. E, tra adulti, si ha sempre poca voglia di rivangare i tempi in cui si è stati romantici, sprovveduti e rudimentali. Per questo esercizio, sono necessari i grandi romanzi. I comuni mortali, come noi, preferiscono il presente. Si preferisce pensare a un presente bellissimo. E' un pensiero che ti salva la vita. E infatti ho scoperto che, parallelamente, ciascuno per conto proprio, alle nostre rispettive compagne, sia io che D'Avanzo ripetevamo quasi quotidianamente la stessa frase, questa: "Roma è bellissima".Roma era il presente e volevamo tutti e due che il presente fosse bellissimo.

Il secondo paragrafo, impropriamente, riprende il tema di questo incontro: "il metodo D'avanzo". Dunque, una volta, in una delle giornate più fredde e umide degli ultimi vent'anni, io e D'Avanzo andammo ad incontrare un tizio che era stato famoso e potente. Non sto parlando di Andreotti, ma di un altro individuo. E questo tizio, in un momento di stanchezza, di sfiducia, come per incanto, si mise a raccontare cose incredibili. Retroscena della prima e della seconda Repubblica, fatti circostanziati inediti, notizie a cascata. Alla fine dell'incontro, durato ore, io ero in uno stato di euforia. Dissi saltellando a D'Avanzo: "Ma hai sentito quante cose nuove ci ha raccontato"?. Ma ero solo, perché D'Avanzo, in quel momento, era proprio tutto il contrario dell'euforico. Nel freddo guardava a terra senza parlare e, circostanza non nuova, si era incupito, e poi disse solamente una cosa di quell'incontro. Disse: "hai notato quel tizio quando si è seduto sulla cyclette? Si è messo spalle a noi e ha pianto per qualche secondo".Questo, lo aveva colpito. Io risposi che non me ne ero accorto, che non mi sembrava che il tizio avesse pianto e comunque mi sembrava irrilevante rispetto a quello che ci aveva raccontato. Ma D'Avanzo insisteva: "Si è fermato nel racconto ci ha dato le spalle, era seduto sulla cyclette e ha pianto, ma non mi ricordo in relazione a quale racconto si è messo a piangere". Non se lo ricordava, perché il dramma dell'uomo aveva annebbiato la rilevanza del fatto che stava raccontando. Era accaduto qualcosa di sorprendente, che faceva saltare il banco del metodo D'Avanzo. L'uomo intralciava i fatti. Per inciso, i fatti che a me sembravano inediti e sensazionali, a D'Avanzo non avevano fato né caldo né freddo, perché ai suoi occhi o erano vecchi e notori o erano falsi. Comunque erano da verificare. E comunque, erano solo fatti. Ma a parte questo, c'era, ai suoi occhi, una sola cosa importante in quel momento: quell'uomo aveva pianto per pochi secondi. Se c'era una notizia o un fatto inedito è lì che si trovava: in quei pochi secondi in cui un uomo adulto, scaltro ed esperto non era riuscito a trattenere le lacrime. Ai suoi occhi, in modo per me del tutto inatteso, i fatti erano passati in secondo piano, perché per un istante si era materializzato un uomo su una cyclette. L'uomo. Penso che in quel momento la nostra amicizia ha compiuto un piccolo scatto in avanti. Timidamente, ci eravamo un po' riconosciuti e smascherati, scambiandoci, nel freddo, goffamente, i ruoli. Io per lavoro mi avvento proprio su cose di quel tipo: adulti che piangono per un nonnulla su una cyclette, ma in quel periodo, per il mio film su Andreotti, cercavo i fatti e mi ero rivolto a D'Avanzo, che maneggiava, per lavoro, i fatti meglio di chiunque altro, ma lui, in quel momento, cercava gli uomini in cyclette che piangono. Uno scrittore molto caro a D'Avanzo, a me e a tanti napoletani, che è La Capria, scrive: "La vita è quello che ci accade, mentre ci occupiamo d'altro" La vita di Peppe D'Avanzo era riportare e interpretare fatti, mentre si occupava d'altro. Io non so se lui lo aveva capito, ma lui si occupava degli esseri umani delle loro pieghe, delle loro sfaccettature, della loro miseria, ma di tutto questo non c'è una traccia manifesta nei suoi articoli. Non se ne occupava ancora in modo diretto, di petto. Aveva un pudore, una ritrosia, in questo senso. Esattamente come io, dinanzi a lui, aveva pudore e ritrosia a fare ipotesi sui fatti, sulle verità e sulle menzogne di questo paese eternamente acciaccato. Io non sono in grado di parlare del metodo D'Avanzo, perché mi occupo d'altro, però durante i nostri incontri e le nostre telefonate ho intravisto qualcos'altro, ovvero il prossimo metodo D'Avanzo. Forse mi sbaglio, ma a me è parso che, tra molte resistenze, in Peppe si facesse strada la necessità non rimandabile di un altro metodo per raccontare questo paese. Un metodo che lo avrebbe costretto a raccontare gli uomini per quello che sono, al di là dei loro comportamenti scorretti, immorali ed arroganti. Uomini piccoli e fragili che piangono su una cyclette ferma. Uomini in grado di bere solo il Crodino mentre assistono agli strip tease. Uomini che dopo avere edificato imperi di tutti i tipi finiscono per dedicarsi a tempo pieno a un barboncino con un nome di due sillabe. Questa era ed è un'altra verità che secondo me, era sul punto di raccontare. Una verità più vera delle rivelazioni di un pentito attendibile o delle confidenze di certe fonti segrete che solo lui conosceva. Ora, dal momento che siamo stati dominati e condizionati per vent'anni da un uomo in particolare, Peppe sapeva di dover raccontare quell'uomo. Quell'uomo è Berlusconi. Lo ha raccontato, ma non lo ha raccontato come avrebbe voluto e come avrebbe potuto. Purtroppo non ne ha avuto il tempo ed è un peccato per tutti. Anche io volevo occuparmi di quell'uomo che oggi è un po' fuori moda. E allora ne parlavamo spesso. Leggevamo testi vecchi e dimenticati, fuori catalogo, ci scambiavamo fotocopie sbiadite e concentravamo la nostra attenzione soprattutto sui lavori degli adulatori di Berlusconi non dei detrattori. Io, un po' per provocazione, lo pungolavo dicendogli che ravvisavo delle verità leggendo i testi incensatori su Berlusconi di Gigi Moncalvo o di Maria Latella. E lui, senza provocazione, mi prendeva sul serio e m'insegnava che si può trovare più verità nell'amore cieco e ottuso degli amici che nell'odio e nella stizza dei nemici. In questo, D'Avanzo era molto più avanti di tutti quelli che hanno scritto in questi anni su Berlusconi. Lui sapeva che non solo la menzogna si può trovare dappertutto, questo è fin troppo facile, ma anche la verità. La verità sta anche nelle parole scontate e retoriche dei figli verso un padre, nelle dichiarazioni di una moglie devota o opportunista, e di un amico che amico non è perché sta ricevendo dall'adulato soldi, favori e privilegi. Per lui, la verità poteva essere ovunque, esattamente come la bugia. Per questo, secondo, me, scovava la verità prima e meglio degli altri. Perché non dava per scontata la bugia. John Cheever, il grande scrittore americano, riporta nei suoi diari una frase meravigliosa. Una frase che tra l'altro si sarebbe potuta applicare perfettamente a l'uomo Berlusconi, sul quale Peppe covava l'idea di scrivere un grande libro. John Cheever scrive: "Ci svegliamo dal sonno che siamo veri uomini, pieni di slancio, amore e ottimismo, ma c'è lo sconosciuto dal volto scuro che aspetta sulla porta, la vipera che serpeggia in giardino, il vecchio che bisbiglia cose lascive al bambino e la donna che siede al suo tavolo piangendo". Tutto questo D'Avanzo lo ha raccontato scrivendo d'altro. Eppure, se avesse avuto il tempo di scendere da quella bicicletta quel tempo necessario che gli serviva per vincere un pudore, sono sicuro che avrebbe scritto meravigliosamente, in maniera spregiudicata, sincera e ineguagliabile, proprio dell'uomo pieno di slancio, amore e ottimismo e, al tempo stesso, dello sconosciuto alla porta, del vecchio lascivo e della dona che siede al tavolo piangendo. D'Avanzo si occupava della natura occulta del potere del farabutto patentato dell'individuo senza scrupoli e senza sensi di colpa ma sapeva benissimo, sempre usando altre parole di John Cheever che "una così ampia parte del mondo sembra un posto dove un ragazzo porta una ragazza".

Il terzo ed ultimo paragrafo è un'incursione parziale e frammentaria su un D'Avanzo privato. Lui mi odierebbe per quello che sto per dire. Perché per lui il privato era, religiosamente, il privato. Ma quel pudore che non ha avuto il tempo di vincere lui, l'ho vinto io. E dunque lo leggo. D'Avanzo si trovava a suo agio nei rapporti forti, maschili, fatti di uomini veri, uomini di parola, cristallini. Certi mondi raccontati da Hemingway. Però, nascondeva una fragilità bambinesca. Mi ricordo di Peppe certi immusonimenti, squarci della sua faccia oscurata per motivi irrilevanti, per questioni inutilmente complicate, anziché complesse. Era ai miei occhi il suo lato irritante ma affascinante mentre, per chi gli era più vicino, poteva risultare, naturalmente, un lato faticosissimo. Peppe portava alla ribalta, di colpo, in modo imprevedibile, il puerile, l'irragionevolezza, la questione di principio. Tutto in un modo che a volte sapeva essere estenuante. Quelli che altri liquidavano come scatti d'umore senza importanza e fondamento, a me sono sempre parsi una dimensione fenomenale di D'Avanzo. Questo è l'aggettivo più giusto che trovo per lui: fenomenale. Era fenomenale, Peppe, nell'ira e nella generosità, nell'accanimento sul ragionare, sull'ascoltare e poi sul controbattere fino alle urla, era fenomenale nella sua intolleranza verso gli esibizionismi, nel suo sentimento doppio di crocifiggere la stupidità e, allo stesso tempo, di riconoscere l'irresistibile richiamo della stupidità come uno strumento d'ironia sommo e inarrivabile. Qualche volta, con giri di parole, abbiamo alluso a questa schizofrenia tutta italiana. Un paese così sciocco da risultare, in nome della sua stupidità, dinamico, imprevedibile, unico, insomma il peggiore e il migliore luogo dove trascorrere la propria vita. In questo paese, negli ultimi vent'anni, hanno troneggiato le invidie, gli odi, le cattiverie, si è passato il segno nell'attacco frontale che non conosce il senso del limite, del pudore, della vergogna, del rispetto dell'essere umano. Tutti sottoprodotti di un'immersione collettiva nell'apnea del grande mare della stupidità. Eppure, questa mancanza d'aria ha riempito le nostre giornate, rendendole memorabili. E' l'altra faccia della medaglia dell'essere sciocchi: ci si sente vivi.
news
back next
back next