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24/01/2011
MARTIN AMIS VS. AMERICAN WRITERS
MARTIN AMIS VS. AMERICAN WRITERS
Accesa polemica al festival di Jaipur tra alcuni dei protagonisti delle passate edizioni delle Conversazioni.
Corriere della Sera
Cultura
Gli scrittori Usa contro Martin Amis «Il romanzo è vivo»  
di Livia Manera
JAIPUR (India) — «La sola idea che il romanzo americano sia in crisi mi pare una semplificazione stupefacente, una glassa che viene usata per ricoprire una realtà di cui non sappiamo niente. Perché quello di cui stiamo parlando qui è una parte infinitesimale della cultura del nostro Paese», ha esordito ieri Junot Diaz al Jaipur Literature Festival, mettendo in difficoltà Martin Amis che, in una prospettiva aristocraticamente britannica, ha lanciato il tema della «Crisi del romanzo americano», coinvolgendo nel dibattito, oltre a un premio Pulitzer capace di una prosa vitalissima come Diaz, due altri autori come Richard Ford e Jay McInerney, ai quali certamente non manca né la prolificità né il successo.
«Di cosa parliamo allora? Della centralità del romanzo nella vita americana?» ha chiesto Diaz. Di questo, secondo lui, si può effettivamente discutere: «La crisi che vedo io è che il nostro tempo per leggere si è ridotto. Da un lato non abbiamo più tre ore al giorno da dedicare alla lettura. Dall’altro c’è anche troppo presente nella nostra vita. E sempre meno futuro, sempre più incertezza, meno garanzie di trovare un lavoro, di guadagnare dei soldi». Amis non si dà per vinto e spiega che «un’intera generazione di grandi se n’è andata, Updike, Mailer, Vonnegut... con Philip Roth che rimane l’ultimo dei Mohicani. Ma è vero che, come dice Diaz, i tempi sono cambiati ed è inimmaginabile che il pubblico oggi sia disposto a immergersi in un lungo romanzo in cui non succede niente, come Il dono di Humboldt  di Saul Bellow, che all’epoca è rimasto per nove mesi nella classifica dei bestseller. Oggi ci chiediamo tutti chi saranno in un futuro molto prossimo i nostri lettori».
È la rivoluzione digitale a preoccupare Martin  Amis, ma Ford non sembra convinto. «Ho sempre pensato che negli ultimi vent’anni la narrativa americana sia cresciuta e si sia diversificata» e il riferimento fin troppo chiaro è al contributo degli afro-americani, degli asiatici-americani e dei latini, primo fra tutti Diaz.
«Freedom di Franzen non sarà un romanzo in cui non succede niente, ma il fatto che sia in classifica da quando è uscito cinque mesi fa mi sembra un segno di grande vitalità», ricorda McInerney ad Amis. E la discussione si chiuderebbe su questa nota, con una persona tra i pubblico che ricorda la copertina che «Time» ha dedicato qualche mese fa a Franzen, come un successo per tutta la letteratura, se Diaz non rispondesse che lui non ci sta a dare lo stesso valore che danno gli altri a quell’evento: «Ho trovato molto autoconsolatoria la copertina di "Time" attribuita a un autore come Franzen che rappresenta forse l’uno per cento della cultura americana. Volete sapere quanto è grande l’America? Io ho due cugini nell’esercito in Iraq che mi scrivono: "Hei, bello, ma dove finisce l’America?". La realtà che vivono ogni giorno a Bagdad non è meno americana di quella di un sobborgo di Minneapolis».
«Ecco dov’è la crisi» conclude Diaz strappando un applauso: «Nessuno scrittore latino che conosco è sulla copertina di "Time". Questa è la crisi del romanzo americano. E finché continuiamo a credere che siano i Franzen a rappresentare una nazione diversificata come l’America, vuol dire che non abbiamo capito niente di cosa sia veramente la nostra cultura».
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